North Point North – John Koethe in italiano

North Point Nord


I

Mi ritrovo in queste cose:
nella doccia, allo specchio, nelle inconsce
ore trascorse allo schermo
fissando artefatti autoriferiti.
Li vedo come mondi autosufficienti
dove stare per un pezzo
e poi svegliarmi, le nubi dissipare
sulle strade fradicie di
pioggia caduta mentre ero.
Il sole brilla, i quieti
dubbi avvolti in altri dubbi:
i miei anni si assomigliano
e la storia implode nella mente.
Ciò che filtra attraverso le teorie
è un segno di ristoro, un equilibrio
fra la vita e ciò che prometteva –
stanze, poesie, ordinarie vie
che sbocciano ogni estate, intricate,
fra speranze e felicità presente –
che da fuori sembra auto-oblio.

Non c’è fine a queste riflessioni,
al tono misurato, cadente,
in cui cuore e spinte sono conciliati.
Le vivo, e sono grato
perché informano i miei giorni
dal mattino fino a sera.
In loro, il presente sfoca
e per un po’ il vecchio incantamento
tiene, familiare e sconosciuto,
ben stipato nei confini della stanza
che sembra adesso un sentimento, una grazia
preparata per me, scritta nel mio nome
contro il tempo ad un tempo
ormai riaccordato, rivelato –
lasciando dietro almeno uno strato di vero
come lo sentivo e lo vedevo
un mattino d’estate: suono e senso,
musica ed umore in un abbraccio
esitante che li rende uguali.


II

Può essere che nulla cambi, la poesia,
solo un’atmosfera: convenzionale o strana,
il senso incluso nella percezione
– o nell’equivoco –
di ciò che si poteva, poi saputo,
ossia questo vero istante presente.
E tuttavia la promessa di un remoto
scopo che fa, ogni momento, nuovo.
Può essere che nulla dica, l’anima,
in sua difesa, eccetto descrivere
come giunse a quell’impasse
un mattino lucente di glassa –
la strada da casa a qui
iniziata in stupore e meraviglia
e poi finita in un avvallo
di paura, solitudine, paura.

Il fatto è tutto nell’evento
contingente a qualcosa pensata
o ancora pensabile. Spaventa
pensare al lampo
e al dopo, al cielo nero
che infine copre la scena
per marcare il tempo,
che Iddio distante ed orbo

vedrebbe nulla mai esser stato:
che niente, apparente o ignoto,
era reale e tutte le parole,
private, uccelli d’aria,
meramente suoni
senza significato o senso,
inerti e morti dietro il denso
espanso della terra in spento raggio.

Nulla salverebbe da quel pensiero.
Nulla che si sia mai visto
a dare alla ricerca senso
o solo una coerenza.
Forse. Ma a me più vicino
del grande e vasto e immenso
è la calma di questo momento
nel suo splendore transitorio.


III

Qualcuno ha chiesto dell’aria di rimpianto
e disappunto che sta nelle poesie,
dei fatti che stanno dietro a questi sentimenti
e di dove fossero nella mia vita.

Ho risposto che niente è personale,
che come vita la mia vita è sistemata,
fatta di successi e di sfortune,
successi glabri, sfortune lievi.

E tuttavia la domanda ha senso
non per me solo, ma certo per me.
Perché anche se, come disse Wittgenstein,
mentre i fatti possono stare uguali

e ciò che è vero di uno è vero dell’altro,
felici e infelici stanno in mondi diversi
e si vorrebbe sapere di questo,
di come l’altro appaia così vicino.

Molto di quel che appare sta nel frasario,
in come un pensiero nasce e poi si contorce
finché la domanda non viene risposta.
Forse la tristezza è un modo, libero,

negare il cambiamento e la scomparsa,
liberarsi dalle circostanze,
come se l’anima potesse parlare
dal rifugio di un bozzolo d’aria.

Andiamo più a fondo: i momenti più tristi
sono quelli che appaiono meravigliosi
perché un momento è destinato a passare
lasciando tutto inalterato, lo sfondo

di luce nella stessa luce.
E il tempo fa poesia di ciò che porta via,
la misura dell’esperienza
non è che sia reale ma che duri,

ciò che uno sa è ciò che sapeva
e ciò che vuole è ciò che aveva.
Questa è la premessa al mio sentire,
l’assioma che governa il mio pensare

e dietro di loro, paura –
paura non dell’ignoto ma di invecchiare
uguale, di guardare lo specchio
di un futuro che si ripete infinito.

Potrebbe facilmente esser diverso.
Il transeunte che sembra perdita
si dica apertura rinnovata,
una vita addolcita dal mutamento;

e le ombre del passato
siano parentesi in cui sostare
prima di tornare e continuare.
La via sarebbe comunque la stessa,

estesa ad un certo numero di anni
esperita in duplice prospettiva,
la prima comune e poi man mano
personale in fondo al viaggio.

La differenza non sta nel dettaglio
o nel traguardo ma in che si prova nel cammino:
il segreto della ricerca mi sta intorno
mentre ciò che sta sottocoperta è altra storia,

una di conseguenze non maggiori né focali.
Ciò che importa non è ciò che credi
ma la forza con cui credi
e invece di cercar risposta in sogno

rinuncia alla domanda, lascia continuare
il canto nello scorrere dei giorni
e nel risveglio del mattino in questo mondo,
tanto in giubilo che in rimpianto.


IV

Ogni giorno inizia come ieri iniziò;
un gatto in silhouette nella penombra
di ciò che schiude il giorno –
colazione e New York Times, un uomo
che fa la doccia, una poesia che nasce
come stati mentali disposti
impredicabilmente.
Attraverso l’afa d’estate
mi reco in palazzo
per dare una lezione di filosofia

in senso stretto; poi a casa col gatto.
Vita minima; o detto in altro modo
una vita i cui fatti possono tutti
stare in una pagina, nel parco formato
d questo esile romanzo quotidiano,
l’Ulisse in miniatura,
un diario così intenso
che i suoi ritmi sembrano inventati:
un pasto solitario.
Un disco. Un film. E poi a dormire.


V

Alla fine del remake di “la cosa”
Kurt Russell e un altro tizio
sono ciò che resta dell’equipaggio
di una base antartica. Una presenza orrida
– proteana – si insidia
dentro l’essere di un uomo normale
e senza un segnale fa devastazione.
I due sopravvissuti si guardano dubbiosi,
nessuno sa se uno
ancora ospita l’orrore. “Che si fa ora.”
chiede l’altro e Russell risponde
“Vediamo che succede.” Il film finisce.

“Orrore” è troppo, ma si dica la paura
di cui parlavo prima e la scena è fatta.
Non so e nessuno davvero sa
Cosa ci sarà negli anni a venire,
Ma quando la domanda è posta ho paura –
non del tempo ma di uno sterile prolungamento
che guardi avanti ed invece guarda se stesso.
Questa è la paura che mi tocca dentro:
che questo è tutto quel che c’è, che quel che ho
sarà tolto e nulla uguale avrò in cambio.
I giorni si accumuleranno con le notti
finché il segreto della mia vita emergerà –
non devastazione ma un lungo declino
che porta almeno e certamente ad una fine.

Poi mi scuoto e guardo il cielo
che domina le strade di North Point Nord
e rende tutto anonimo, un’anonimità
nella quale vedo una possibilità,
una libertà nel mondo – il solo – che va
indifferente a tutto e a questa poesia.
Una poesia che può fissare un momento
limitando il senso e distanziando il mondo.
Il mio vicinato si sveglia ogni giorno
a vite non diverse dalla mia, ambizioni
e rimpianti, ma dentro un’umile felicità.
Le delusioni vanno e vengono. Ciò che resta
è parte di una presenza, umana e serena.
Le case aspettano pazienti nella luce
di una ormai prossima sera d’estate, mentre
un generale appagamento intride l’aria.
Penso di sapere dove questo va a finire
ma tuttavia ho piacere d’aspettare –
non aspettarmi forse alcunché nel cuore
ma ciò che sta al di fuori. Vediamo che succede.



Originariamente apparsa in “La superpotenza”, 2012, ISBN 9788891027474, ilmiolibro.it (scarica qui il .pdf gratuito)

Ora in “Strenue”, 2023, ISBN 979-8856708300, stampa indipendente con Amazon.it (scarica qui il .pdf gratuito)